ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test'alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.
Ed ecco quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
Temp'era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;
Lonza (dal francese antico lonce), probabilmente ai tempi di Dante Alighieri indicava un felino, una via di mezzo tra il leopardo e la pantera.
Allegoricamente i commentatori antichi indicano la lonza come la lussuria, che si interpone tra Dante e il colle con l'intento di farlo ripiombare nei suoi dubbi peccaminosi.
Per il poeta la lonza rappresenta anche la sua città, Firenze, corrotta dalla lussuria (lo dice anche altrove nella Comedia) e dall'invidia, altra identificazione
Segue l'apparizione di un leone, che pare andare incontro a Dante con la testa alta e con rabbiosa fame, di tale impeto che pareva che l'aria ne tremesse.
Allegoricamente Il leone viene indicato come simbolo di superbia.
Alcuni commentatori l'hanno invece interpretato come simbolo di violenza, in base alla tripartizione dei peccati nella topografia morale dell'Inferno dantesco (la lonza sarebbe allora l'incontinenza, la lupa invece la frode). Non è escluso che entrambe le interpretazioni siano valide.
La lupa è univocamente interpretata come allegoria dell'avarizia-cupidigia, la più grave delle tre disposizioni peccaminose che impediscono a Dante la salita del colle
Lo stesso Plutone, custode demoniaco del III cerchio dell'Inferno, è definito da Virgilio un lupo (Inf., VII, 8) e la lupa ritorna nella famosa apostrofe di Purg., XX, 10-12 (Maladetta sie tu, antica lupa, / che più di tutte l'altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa), dove si parla proprio del peccato di avarizia espiato nella V cornice.
Questo animale è del resto accostato al peccato di avarizia in molti bestiari medievali, inoltre in Purg., XIV, 49-51 Guido del Duca allude ai Fiorentini chiamandoli lupi, con evidente accenno al peccato di avarizia di cui erano esempio.
L'accusa di avarizia viene rivolta a Firenze anche in Par., IX, 127 ss., dove Folchetto di Marsiglia definisce Firenze come città del demonio che produce e spande il maladetto fiore / c'ha disviate le pecore e gli agni, / però che fatto ha lupo del pastore. Il fiore è naturalmente il fiorino, colpevole di trasformare pecore e agnelli del gregge cristiano in lupi famelici.
Nella Commedia Virgilio compare nel Canto I dell'Inferno, quando soccorre Dante dalle tre fiere nella selva oscura e da lì lo conduce nel viaggio attraverso due dei tre regni dell'Oltretomba (Inferno e Purgatorio).
Il poeta latino è allegoria della ragione naturale dei filosofi pagani, in grado di condurre l'uomo alla felicità terrena e al pieno possesso delle quattro virtù cardinali (prudenza, fortezza, temperanza e giustizia): infatti il Virgilio dantesco guida il discepolo sino al Paradiso Terrestre, in cima al monte del Purgatorio, dove il suo posto è preso da Beatrice, allegoria della grazia divina e della teologia rivelata.